Di cosa parliamo quando parliamo di land grabbing?
Può essere definito come «l’acquisizione o l’affitto a lungo termine di vaste aree di terra da parte di investitori»[1] per scopi agroindustriali e, anche da un rapido sguardo, questo fenomeno riguarda tanto la terra quanto chi vuole usarla e sfruttarla.
Il fenomeno riguarda soprattutto i flussi di capitale verso l’Africa, l’America del Sud e l’Asia, e rappresenta una minaccia per la sovranità dei Paesi in via di sviluppo e per la sopravvivenza delle comunità locali.
Per meglio inquadrare il fenomeno, si deve considerare l’interconnessione tra commercio e investimenti: quali tipi di investimenti caratterizzano questo fenomeno, cosa viene maggiormente prodotto e come vengono realizzati i prodotti. I principali attori coinvolti in questi investimenti sono multinazionali, Stati e attori privati interessati alla cultura intensiva. Molto spesso, dopo l’imposizione di un modello agricolo diverso da quello tradizionale delle comunità, il periodo di affitto della terra termina (solitamente dopo 5 anni), lasciando la terra e le comunità a cui appartiene profondamente trasformate.
Il fenomeno ha le sue origini nella convergenza di interessi tra i Paesi destinatari e quelli investitori: attrarre investitori per i Paesi sviluppati destinatari è fondamentale per aumentare i ricavi delle esportazioni.
Il perpetuarsi di questo fenomeno ha subito un processo di normalizzazione attraverso la narrazione di organizzazioni internazionali, istituzioni finanziarie internazionali e forum governativi come il G8.[2] Diverse autorità hanno incoraggiato questa pratica e l’hanno definita un’espressione della ristrutturazione del regime alimentare e uno strumento efficace per lo sviluppo. Di conseguenza, considerando queste terre come “sottoutilizzate” e “libere”, gli investimenti stranieri sembrano l’unico modo corretto per gestire l’avanzo delle terre.
Questa visione non prende in considerazione modi alternativi di utilizzare la terra nel rispetto dell’ambiente e dei diritti della popolazione e, se anche le istituzioni finanziarie (che hanno il potere di finanziare attivamente i progetti) sostengono questa visione, la spinta a mettere in pratica modi alternativi di guardare al sistema alimentare sembra sempre più debole.
Nel 2008 la Banca Mondiale, l’istituzione internazionale che fornisce aiuti economici ai Paesi in difficoltà, ha attuato politiche agricole basate sul libero scambio, eliminando ogni limite all’acquisto di terre appartenenti ai paesi economicamente meno sviluppati.
In generale, a cavallo della crisi economica e alimentare del 2008-2010 il fenomeno si è accentuato. Molti tra i Paesi più ricchi hanno cercato di evitare un’eccessiva dipendenza dai mercati internazionali, intensificando il fenomeno. L’idea alla base di questa corsa alle terre straniere passava attraverso la garanzia delle proprie condizioni di sicurezza alimentare[3] ma anche di forniture sicure di biocarburanti.[4]
Quali erano i biocarburanti del 2010 e cosa sono ora?
Nella maggior parte delle analisi condotte a ridosso della crisi del 2008 e dell’espansione senza precedenti del fenomeno del land grabbing, i biocarburanti erano visti come potenziali concorrenti al cibo nell’utilizzo delle terra. Non solo: un’aura di stigma ha avvolto queste tecnologie e il dibattito era aperto sul ritorno energetico sugli investimenti, la riduzione delle emissioni e gli impatti, come lo sgombero dei terreni, lo sfollamento, le disparità di classe.
La visione dei biocarburanti nei primi anni ‘10 era diversa o quantomeno parziale e profondamente segnata dalle esternalità negative prodotte dagli investimenti di quel tipo, tra cui il land grabbing. Allora si parlava di produzione di biocarburanti di prima generazione, ovvero prodotti direttamente da colture alimentari coltivate su terreni arabili. Di questa tipologia, oltre al conflitto di utilizzo della terra tra cibo e carburante, non convince il grande dispendio di acqua e di terreno. Il relatore delle Nazioni Unite per i diritti umani, Jean Ziegler, ha dichiarato nel 2007 che si tratta di un «crimine contro l’umanità».
Nel tempo, diverse ricerche hanno dimostrato la fattibilità di modelli alternativi per la produzione di biocombustibili, come biocarburanti che derivano da masse vegetali non coltivate ad-hoc, come gli scarti agricoli e forestali, fino ad arrivare a ciò che si definisce oggi come biocombustibili di terza e quarta generazione che non coinvolgono l’utilizzo della terra.
Questa evoluzione ha dimostrato la possibilità di sganciare la produzione di biocombustibili da un fenomeno di degradazione ambientale, culturale e sociale come il land grabbing e che modelli alternativi di produzione dei biocarburanti sono possibili, senza dover ricorrere a pratiche ormai risaputamente insostenibili e lesive dei diritti umani.
Perché bisogna considerare modelli alternativi?
Secondo il rapporto che presenta i Principi minimi dei diritti umani, il costo opportunità reale nel cedere la terra a un investitore non è elevato e si dovrebbe dare priorità all’analisi di altri modelli di business (come l’agricoltura a contratto) che possano raggiungere lo stesso obiettivo senza modificare i diritti sulla terra e impattare sul sostentamento di un’intera comunità.
In generale, bisogna considerare che gli investimenti sono inquadrati in una visione specifica del sistema alimentare e riproducono quella visione. Come suggerito dalla lettera aperta dello Special Rapporteur sul diritto al cibo diretta ai capi di governo dei paesi africani,[5]
«gli Stati ospitanti e gli investitori dovrebbero stabilire e promuovere sistemi agricoli ad alta intensità di manodopera – invece di operazioni altamente meccanizzate – per garantire che gli accordi di investimento contribuiscono a rafforzare le opzioni di sostentamento locali e a fornire salari di sussistenza alla popolazione locale, che è una componente chiave del diritto umano all’alimentazione».
La lettera continua aprendo il dibattito su sistemi di investimenti alternativi, mettendo in luce quanto l’apertura verso questi sistemi sia fondamentale per garantire i diritti delle persone, come il diritto al cibo:
«anche l’agricoltura sostenibile, in particolare gli approcci agro-ecologici e le pratiche agricole a basso input esterno, dovrebbero essere privilegiati negli accordi contrattuali. Un ambiente sicuro e produttivo è infatti un elemento della realizzazione del diritto al cibo per le comunità locali».[6]
[1]Olivier De Schutter (2011) How not to think of land-grabbing: three critiques of large-scale investments in farmland, The Journal of Peasant Studies, 38:2, 249-279.
[2] GRAIN, The G8 and Land Grabs in Africa, 11 March 2013.
[3] Ibid.
[4] Philip McMichael (2012) The land grab and corporate food regime restructuring, The Journal of Peasant Studies, 39:3-4, p. 683.
[5] Olivier De Schutter (2009), Open Letter to African Heads of State and Governments, Reinvesting in African Agricultures: Grounding efforts in the Right to Food as a condition for sustainable results. Disponibile: https://www.ohchr.org/sites/default/files/english/issues/food/docs/Open_letter_AU_july09.pdf
[6] Ibid.