Decostruire i sistemi alimentari: i semi e il futuro del cibo

Parlare di transizione ecologica senza guardare ai sistemi alimentari è, oggi, anacronistico

Per molto tempo la narrazione comune sul futuro del cibo è passata attraverso la necessità di produrre quantità di cibo sempre maggiori, incarnando la retorica del feed the world. In questo modo, gli attuali sistemi alimentari e agricoli sono riusciti a fornire grandi volumi di alimenti ai mercati globali, generando però esternalità negative su diversi fronti:

  • degrado diffuso della terra, dell’acqua e degli ecosistemi;
  • elevate emissioni di gas serra;
  • perdita di biodiversità;
  • carenze di micronutrienti insieme al rapido aumento dell’obesità e delle malattie legate all’alimentazione;
  • stress dei mezzi di sussistenza per gli agricoltori.

Tantissime ricerche hanno smentito questa teoria dimostrando che, alle radici del problema, c’è una disfunzionalità distributiva, e non quantitativa, parlando di una crisi di accumulazione che caratterizza il nostro secolo.

Ripartire dalle basi è fondamentale per comprendere non solo le radici dei fenomeni che hanno determinato il sistema alimentare come lo conosciamo oggi, ma anche ricostruire il ruolo di alcune componenti dei sistemi alimentari e comprenderne il valore.

Ricominciamo dai semi

Il seme è il primo tassello della catena agroalimentare: chi controlla i semi controlla i sistemi alimentari, controlla sia il cibo che mangiamo che chi l’ha creato.

Nel 2007, tre aziende controllavano quasi il 50% del mercato mondiale delle sementi; sette aziende controllavano praticamente tutte le forniture di fertilizzanti e cinque aziende si dividevano il 68% del mercato agrochimico mondiale. Questa concentrazione ha portato a una drastica riduzione delle piccole e medie aziende sementiere e a una gamma ancora più ristretta di varietà sviluppate.[1]

Ma è sempre stato così? Secondo lo Special Rapporteur sul diritto al cibo, Michael Fakhri,[2] la relazione tra l’uomo e le piante ha subito un’evoluzione durante il corso del tempo. Per circa 10.000 anni questo rapporto è stato basato su sperimentazione e adattamento continui, gli agricoltori hanno co-evoluto e adattato le risorse genetiche, con conseguente aumento della biodiversità agricola. Il Report da lui pubblicato nel 2021 su Semi, diritto alla vita e diritti degli agricoltori, spiega come: «Affidandosi alla ricombinazione genetica riproduttiva e alla mutazione per la novità, gli agricoltori hanno guidato l’innovazione e la biodiversità agricola selezionando i semi da salvare, coltivare e distribuire all’interno delle comunità e tra di esse attraverso il dono, lo scambio o la vendita».[3]

Il passaggio verso la privatizzazione è stato stimolato da diversi fattori: i primi brevetti sui frutti negli Stati Uniti, la nascita dei semi ibridi e delle ditte sementiere, l’arrivo dei principi di privatizzazione anche in Europa, l’adozione di normative che vincolano l’acquisto di semi.[4] In generale, una sempre maggiore centralizzazione e l’intensificazione del controllo monopolistico sui semi – industrial intensive models – è passata attraverso la concentrazione economica e l’utilizzo di patenti e proprietà intellettuali.[5]

Torniamo quindi alla narrazione: l’idea è di promuovere il binomio fattori produttivi industriali e produttività, incoraggiare l’utilizzo di fertilizzanti sintetici, pesticidi e macchinari che dipendono dal carbonio, in modo da ottimizzare la quantità di cibo prodotta. La produttività non viene quindi misurata in termini di salute umana e ambientale, ma esclusivamente in termini di produzione di beni e crescita economica.[6]

È un processo che si compie nell’arco di decenni ma che non rimane un solo affare di genetica e botanica, ma ha un vero impianto sociale, se non filosofico e legale.[7]

In particolare, il modo in cui le sementi sono governate e regolate attraverso i diritti di proprietà intellettuale è diventato uno strumento potente. Infatti, a seconda del modo in cui tali strumenti giuridici vengono utilizzati, e in particolare dell’obiettivo politico e del contesto in cui le autorità decidono di operare, possono riprodurre lo schema tradizionale, basato sulla vendita del seme, o sfidarlo. Un esempio di ciò è il sistema delle sementi creato e promosso dalla Convenzione Internazionale per la Protezione delle Nuove Varietà di Piante che ha diffuso una visione in cui gli agricoltori non possono utilizzare le proprie sementi, a meno che non le acquistino o paghino una royalty all’azienda che rivendica la varietà come sua proprietà.[8]

Al contrario, come suggerito da Michael Fakiri, una reinterpretazione di altri strumenti, come il Trattato internazionale sulle risorse fitogenetiche per l’alimentazione e l’agricoltura, in relazione ai diritti umani, potrebbe mettere l’attenzione sul diritto degli agricoltori e delle popolazioni indigene a partecipare equamente a tutti i programmi di condivisione dei benefici nella gestione del seme.

Esternalità socio-ecologiche

Questo processo ha portato con sé una serie di effetti negativi.

Primo tra tutti, la perdita di biodiversità. L’erosione della biodiversità provocata dall’agricoltura industriale ha inoltre avuto impatti specifici per le donne in quanto produttrici e custodi di cibo, tra cui la perdita di conoscenze relative alle sementi, alla lavorazione e alla cottura degli alimenti. Basti pensare che ad oggi, il nostro rapporto con solo nove specie (canna da zucchero, mais, riso, grano, patate, soia, palma da olio, barbabietola da zucchero e manioca) rappresenta oltre il 66% di tutta la produzione vegetale in termini di peso.

In più, la diretta conseguenza è che gli agricoltori vengono esclusi dalla gestione del seme, passando da produttori a clienti. I contadini diventano dipendenti da aziende agrochimiche responsabili del mercato globale di pesticidi.

Tra alternative e resistenze

Per far fronte al sistema promosso dall’agricoltura industriale, la società civile, e anche alcuni governi, hanno tentato e tentano di mettere in discussione questa visione.

Questa esigenza nasce non solo per contrastare le esternalità descritte in precedenza, ma anche perché allontanarsi dal modello di commercializzazione delle sementi ha i suoi vantaggi: i sistemi di sementi degli agricoltori rendono i sistemi alimentari più resistenti ai cambiamenti climatici, ai parassiti e agli agenti patogeni.

Infatti, più un sistema alimentare è diversificato e più dinamico è l’ecosistema globale, più alta è la possibilità che una specie abbia un particolare tratto che le permette di adattarsi a un ambiente in cambiamento (e a sua volta di trasmetterlo). Seguendo questi principi, in molte comunità del mondo sta prendendo piede il seed swap, ovvero lo scambio di semi principalmente gestito da organizzazioni, centri di ricerca e enti privati che ha come scopo la conservazione e riproduzione di semi, al di fuori dello schema commerciale.

Secondo La Via Campesina,[9] il sistema delle sementi industriali brevettate è solo l’ultima componente di un piano su larga scala per standardizzare le sementi industriali e sostituire la diversità delle sementi dei contadini e degli agricoltori. In tutto il mondo sono stati messi in atto diversi progetti di opposizione, molti dei quali incentrati sulla creazione di sistemi di sementi autoctone (Mozambico) e del Movimento delle sementi autoctone (Corea) per proteggere i semi; altre organizzazioni lottano contro il pagamento di royalties all’industria (Germania). In altri casi, la strategia governativa di utilizzare schemi di marchi e licenze – come nel caso del caffè etiope – ha dimostrato come sia effettivamente possibile preservare la posizione dei coltivatori e dei produttori, farli diventare parte dei responsabili della determinazione dei prezzi e, allo stesso tempo, aumentare le esportazioni di caffè del Paese.[10]

Alcuni studiosi hanno inoltre sottolineato come il modello alternativo richieda meno input esterni, la maggior parte dei quali sono prodotti localmente e/o in modo autosufficiente.

È necessario un insieme diversificato di sementi altamente adattate a livello locale, nonché la capacità di riprodurre, distribuire e accedere a questa base di risorse genetiche nel tempo. Ciò si riflette anche nel sistema di incentivi: un ruolo sostanzialmente ridotto per le varietà di cereali principali che rispondono agli input, con conseguenti incentivi limitati per i fornitori commerciali di sementi, fertilizzanti e pesticidi.[11]

Inoltre «si potrebbe sviluppare una legislazione specifica sulle sementi per sostenere lo scambio e l’accesso alle sementi di varietà tradizionali, spesso geneticamente eterogenee, attraverso sistemi di sementi informali/tradizionali».[12]

I semi sono esempio calzante dell’attuale transizione verso sistemi alimentari sostenibili, ad oggi incastonata tra il modello dominante di produzione agricola intensiva che passa per l’agricoltura industriale e sistemi alternativi, come i sistemi agroecologici diversificati.

Per favorire una giusta transizione, che garantisca il cibo ma allo stesso tempo i diritti dei contadini che se ne prendono cura, capace di prevenire la perdita ambientale e culturale, è necessario riconsiderare il ruolo dei semi.


[1] Frison, E. A. IPES-Food (2016) From uniformity to diversity: a paradigm shift from industrial agriculture to diversified agroecological systems. IPES, Louvain-la-Neuve (Belgium), 96.

[2] Michael Fakhri è professore alla University of Oregon School of Law, dove tiene corsi sui diritti umani, diritto alimentare, sviluppo e diritto commerciale. È anche direttore del Food Resiliency Project del Centro di diritto ambientale e delle risorse naturali.

[3] United Nations, Report of the Special Rapporteur Michael Fakhri, Seeds, right to life and farmers’ rights, A/HRC/49/43, 30 December 2021.

[4] Lavinia Martini, Cos’è lo scambio di semi in agricoltura, e perché è una forma di resistenza, VICE. Disponibile: https://www.vice.com/it/article/y3pmmk/scambio-di-semi-agricoli.

[5] Shiva Vandana, The stolen harvest of seeds, Chapter 5.

[6] United Nations, Report of the Special Rapporteur Michael Fakhri, Seeds, right to life and farmers’ rights, A/HRC/49/43, 30 December 2021.

[7] Fabio Ciconte, Chi possiede i frutti della terra, Editori Laterza, 2022.

[8] GRAIN, UPOV 91 and other seed laws: a basic primer on how companies intend to control and monopolise seeds, GRAIN, 2015.

[9] La Vía Campesina è un’organizzazione internazionale di agricoltori fondata nel 1993 a Mons, in Belgio, formata da 182 organizzazioni in 81 paesi, e che si descrive come “un movimento internazionale che coordina le organizzazioni contadine dei piccoli e medi produttori, dei lavoratori agricoli, delle donne rurali e delle comunità indigene dell’Asia, dell’Africa, dell’America e dell’Europa»

[10] WIPO, The Coffee War: Ethiopia and the Starbucks Story, Case Study. Available at: https://www.wipo.int/ipadvantage/en/details.jsp?id=2621.

[11] Frison, E. A. IPES-Food (2016) From uniformity to diversity: a paradigm shift from industrial agriculture to diversified agroecological systems. IPES, Louvain-la-Neuve (Belgium), 96.

[12] Ibid.